Intervista a Frances-Marie Uitti
di Cosimo Fiaschi, Matteo Mannocci
Frances-Marie Uitti è una violoncellista americana di fama mondiale, nota per il suo approccio innovativo allo strumento. Ha rivoluzionato la tecnica del violoncello, sviluppando l'uso simultaneo di due archetti, permettendo di suonare accordi complessi e di esplorare nuove possibilità timbriche. Attiva soprattutto nella musica contemporanea, ha collaborato con compositori come Iannis Xenakis, John Cage, Luigi Nono, György Kurtág e Giacinto Scelsi. Oltre alle performance, Uitti è anche una compositrice, esplorando l'improvvisazione e la musica sperimentale. Ha inoltre realizzato installazioni sonore e ha collaborato con artisti visivi.
Nel repertorio delle musiche da lei eseguite spiccano i più grandi compositori del Novecento, che spesso le hanno dedicato uno o più lavori. Nono, Harvey, Kurtág, Andriessen, Norgard hanno scritto per e dedicato a Uitti loro composizioni. Sviluppa un intenso rapporto artistico con il compositore romano Giacinto Scelsi, che negli ultimi anni di attività scrive per lei e le dedica tutta la sua produzione per violoncello.
Essendo attualmente alle prese con la scrittura di un libro di memorie rispetto al suo rapporto con Scelsi, la conversazione si è concentrata sulla sua esperienza da musicista e al suo rapporto con lo strumento.
MM: Nel corso degli anni, hai avuto l'opportunità di interagire e collaborare con alcuni dei musicisti più importanti e influenti del ventesimo secolo. Cosa pensi di aver acquisito dal tuo rapporto con loro e con la loro musica? E come è cambiato il tuo approccio alla partitura nel corso degli anni?
La principale differenza tra la musica che ho studiato con vari compositori e quella che ho successivamente eseguito riguarda la questione del linguaggio. Ogni compositore aveva la propria grammatica, sintassi e caratteristiche stilistiche che conferivano un carattere molto unico all'opera in questione. I silenzi rarefatti nel Diario Polacco di Nono, l'uso della mia tecnica dei due archetti che ha utilizzato per nostro lavoro presso la Heinrich Strober Stiftung a Friburgo in preparazione alla composizione, e l'uso di più violoncelli con più accordature, che hanno caratterizzato le mie composizioni negli anni prima di incontrarlo. Geörgy Kurtàg, d'altra parte, ha richiesto alcune delle mie improvvisazioni e poi ha scritto il suo perfetto gioiello, Message to Frances-Marie. Lo stile personale di Louis Andriessen si riflette nel suo lavoro "minimalista" basato su un testo di Cesare Pavese, La Voce, in cui le corde sono riaccordate e l'uso del gesto e della voce in italiano è modellato sulle mie possibilità, risultando in un'opera straordinaria con lo stesso titolo. Questi sono solo alcuni esempi tra tanti che hanno utilizzato i due archetti, la voce sia parlata che cantata e anche elementi teatrali. Ancora una volta, ogni pezzo è un cosmo a sé, con colori e strutture unici per ogni compositore.
CF: Ho notato che, da qualche decennio, c'è un tentativo di espandere le possibilità degli strumenti verso la produzione di un suono continuo e multiplo. La tua straordinaria tecnica dei "due archetti" va in questa direzione. Ci sono probabilmente pochi altri esempi di queste nuove direzioni strumentali, come la ricerca di John McCowen sul clarinetto contrabbasso e il "pianoforte espanso" di Mario Bertoncini. Ma la principale differenza tra la tua pratica e la ricerca di Bertoncini è l'uso di apparecchiature elettroniche, principalmente per amplificare suoni molto sottili. Il tuo uso del violoncello acustico discende da una sorta di dogma o è il risultato di una scelta naturale?
Fin da bambina ho sempre improvvisato. Non lo fanno tutti i bambini? E più tardi, vivendo a Roma, mi riservavo del tempo per farlo durante le prove. Sentivo sempre di più la mancanza di un esplicito senso di armonia, non degli accordi suggeriti implicati dagli incroci delle corde e delle voci nelle Suite di Bach, ma la possibilità di suonare l’armonia a 4 voci. Ho commissionato un archetto molto arcuato con crini morbidi e flessibili per poter colpire tutte e quattro le corde contemporaneamente, ma dopo alcuni mesi ho scoperto i limiti di questo approccio. (Per suonare le corde esterne sul ponte curvo, si deve applicare più pressione alle due corde centrali, enfatizzando così le voci centrali rispetto a quelle del registro acuto o basso, che fosse o meno desiderabile musicalmente. Nella maggior parte dei casi era uno svantaggio per la musica che volevo creare, molto limitante).
Volevo poter accedere a corde non adiacenti, ad esempio, o dare maggiore voce a una corda rispetto all’altra.
Questo richiedeva due archetti. Così ho inventato un modo per tenerne uno sopra e l’altro sotto, in modo da avere totale indipendenza nelle voci, nelle articolazioni, nei colori, e così via.
Quindi, per rispondere alla tua domanda, è stata una ricerca organica nata da un'esigenza musicale.
CF: Pensi che ci siano ancora nuovi suoni da scoprire negli strumenti tradizionali?
In realtà non la penso in questo modo. I suoni che mi interessano sono il risultato di una chiara necessità musicale di espressione, e nascono da questa necessità. La ricerca di nuovi suoni in sé potrebbe produrre un risultato accademico, separato da un'espressione musicale effettiva.
MM: Per quanto riguarda il potenziale espressivo del tuo strumento, qual è stato il tuo rapporto con la tecnologia nel corso degli anni?
Utilizzo l'elettronica nelle mie opere e ho inventato diversi strumenti specifici per soddisfare le mie particolari esigenze musicali: un violoncello a 6 corde e un violoncello con sensori che ho sviluppato al CNMAT, all'Università della California. Questo violoncello non ha un suono proprio, ma offre innumerevoli possibilità di controllare suoni preregistrati, manipolare il suono in tempo reale, e lo stesso vale per una parte video in tempo reale. Poiché ha così tante possibilità in una risposta di 6 millisecondi, lo chiamo "la Bestia".
CF: Suonerai al Centro D'arte di Padova con un violoncello in alluminio del 1929. Puoi parlarci di questo strumento?
Ho scelto di suonare questo concerto con il mio violoncello in alluminio degli anni '20, un pezzo unico. Si crede che sia stato realizzato nell'atelier della famosa famiglia di liutai tedeschi Pfretzchner. Amo i bassi profondi e gli acuti argentati della corda La, e spesso scelgo questo strumento invece del mio classico strumento del 1700.
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IL DISCO DEL MESE
Allan Gilbert Balon - The Magnesia Suite (Recital)
The Magnesia Suite è il primo LP completo del compositore e artista Allan Gilbert Balon, pubblicato dall’etichetta Recital. Nato nel 1986 sull’isola di Guadalupa, Balon è un artista versatile che ha esposto al MoMA PS1 nel 2022 e pubblica libri e opere audio con la XYÄ Edition a Créteil, in Francia, dove attualmente vive.
Questo disco esplora un paesaggio sonoro intimo e contemplativo, evocando un senso di quiete costiera e flusso naturale. Sebbene Balon sia principalmente un pianista, in The Magnesia Suite l’artista intreccia con maestria una varietà di elementi musicali: percussioni, fiati, organo, voce e registrazioni su nastro.
Svariate sono le influenze che sembrano permeare questo primo lavoro di Balon, ma tutte prendono una nuova vita grazie a una personalissima ricerca sonora, per uno dei dischi più originali sentiti negli ultimi tempi.
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UMIDO - Pratiche Umide con Chiara Pitrola
di Pietro Michi
L'acqua (H2O) costituisce più della metà del nostro corpo, è presente in ambito di composizione sonora, essendo nella top 10 dei suoni concreti più comunemente usati, ma soprattutto rende umida questa rubrica.
Si dice ricopra il 71% della superficie terrestre, e inoltre si è intrufolata nell'aria, sottoterra e all'interno di ogni organismo. In natura si può trovare in stato gassoso, liquido e solido.
Siamo quindi perennemente umidi, scivoliamo in una goccia d'acqua che porta con sé sia la scienza che la cultura, mentre temiamo il giorno in cui potrebbe venir meno. L'acqua ci invita ad agire.
Durante questa calda estate ho avuto il piacere di ospitare per un evento Chiara Pitrola con il suo progetto Tracecorporeal: “una serie continua di liturgie di idratazione e installazioni partecipative effimere”.
Un’avventura che ci ha portato a raffrescarci intorno a un falò di ghiaccio sorseggiando tisane appena infuse e ascoltando un immersivo soundscape.
Vorrei quindi proporvi una piccola intervista con Chiara parlando di acqua, suono e fluidità.
Ciao, grazie per aver condiviso le tue pratiche con noi durante l'evento che si è tenuto ad agosto organizzato da Biodiversità, Ambient Noise Session e Denso. E grazie per essere qui tra le righe di Golem. Ti invito a presentarti e fare una breve panoramica del tuo lavoro.
Ciao, è stato un piacere concludere l’estate con voi, non sempre si crea uno spazio di condivisione così intimo e mi sono sentita, soprattutto a livello sonoro, a casa (forse qualcuno concorderebbe sul fatto che un dj set può essere casa così come una playlist qualcosa da abitare). Da qualche tempo mi identifico come praticante idrofemminista: la mia ricerca si è evoluta in una serie di iterazioni incarnate idrofemministe nelle quali la partecipazione del pubblico è fondamentale.
Potresti introdurci a “Trancecorporeal”?
Trancecorporeal per me è performare con l’acqua (e i messaggi, minerali, batteri, inquinanti, nutrienti che trasporta), è esperienza sonora (il soundscape Be Foam, Be Soup narrato da una marea circoscrive atmosfera e immaginario), sensoriale (sagome di ghiaccio, the, oli essenziali), performativa (preparazione di the, ebollizione dell’acqua, vapori). Il mio scopo è tradurre la complessità degli strumenti immaginativi idrofemministi, proposti da Astrida Neimanis, in qualcosa di esperibile a vari livelli sensoriali ed accessibile a tutt3. Transcorporealità, concetto coniato da Stacy Alaimo che ispira il titolo, si riferisce ai transiti corporei umani e non-umani. Quest’ultima insieme al concetto di gestazionalità postumana (logica facilitativa di gestazione di nuove forme di vita attraverso le acque corporee mai pienamente conoscibile) pone le basi per un memoir collettivo in quanto corpi d’acqua interconnessi fin dall’antichità, nel bene e nel male. T. si augura di lubrificare la percezione che abbiamo di questi transiti spesso invisibili, di porre le basi per sintonizzarsi con l’arteria multispecie collettiva in cui siamo immersi, spogliandosi da concezioni dell’acqua come risorsa, merce, feticcio strumentalizzabile.
La versione di Trancecorporeal a cui ho assistito è stata un po' diversa dalle sessioni passate. Lo spazio era aperto, in mezzo alla natura, e si sono formati più layer: chi scrutava da lontano, chi seguiva attentamente a sedere, chi si è radunato intorno al falò di ghiaccio centrale. Non tutti hanno toccato il ghiaccio, altri ne hanno abusato, alcuni sono entrati in uno stato più meditativo e altri in uno più conviviale, condividendo le tisane da te proposte. Infine, siamo stati catturati tutti insieme dagli ultimi giochi di luce fino alla fine della performance.
Quel è il tuo rapporto con il pubblico, e quanto può cambiare l'esperienza in base alle molteplici variabili che possono intervenire?
L’esperienza cambia completamente a seconda dello spazio, delle condizioni di luce, del pubblico e perfino della temperatura. Il mio rapporto con il pubblico credo sia principalmente di ascolto, sto imparando a improvvisare aggiustamenti in reazione all’audience, ma anche a spingere più in là l’ingombro della mia presenza e gestualità se sento che si è innescato un determinato livello di apertura e intimità. È una danza che ha andamenti fluttuanti a livello di disinibizione personale e collettiva, incognita preziosa.
Trancecorporeal è anche idrofemminismo, potresti spiegarci l'idro e il femminismo? Si sta parlando anche di attivismo?
Il fulcro dell’immaginario è appunto l’acqua e come le politiche (del posizionamento), poetiche, temporalità ad essa legate forniscono uno spazio critico per riflettere sulla corporeità in maniera intersezionale. Ecologia, fluidi corporei come sudore e liquido amniotico, rave studies, suono, spoken word e pleasure activism sono attualmente tematiche di cui mi interesso e su cui sto lavorando a livello teorico e somatico. Per me il lavoro immaginativo e di coscienza ecologica sul corpo, così come forme di resistenza legate al riposo e al piacere nel tardo capitalismo neocoloniale e patriarcale sono forme di attivismo.
L'esperienza è arricchita da un comparto sonoro, ho notato che esistono dei momenti e delle sincronie con l'azione proposta, ma penso anche che il brano potrebbe essere un’opera autonoma. Ho trovato variazioni di umore e sintonia durante i vari momenti. Potresti raccontarci come è stato realizzato il brano, sia tecnicamente che emotivamente?
“Be foam, Be soup” nasce dall’interesse simultaneo per la verbalità come incantesimo e la non verbalità sonica come reincantamento. Da narrativa spoken più breve ispirata a idrofemminismo, transcorporealità, visibilità e invisibilità di transiti corporei. Si evolve come paesaggio sonoro con incursioni di immagini legate alle pratiche erboristiche delle mie nonne e a formule speculative sul come farsi perla. Le atmosfere oscillano dall’oscuro, al giocoso, al meditativo, all’erotico allucinatorio, rifacendosi al rituale di accoppiamento dei limuli nella zona intertidale (interrotto da procedure tecnoscientifiche estrazionistiche che li prelevano dal loro habitat), a brodi primordiali ed esplorazioni subacquee.
Una delle cose più affascinanti dell'acqua sono gli abissi profondi, dove ancora vivono quegli organismi che sono riusciti a scappare alla vista dell'uomo. L'acqua cela tante cose, e si scopre sempre qualcosa di nuovo... Vuoi trovare qualcosa nei fondali?
Se potessi scegliere di avere caratteristiche fisiche altre, sicuramente sceglierei branchie e antenne. Spero di ri-entrare mentalmente e immaginativamente nelle profondità dell’oceano come descrive Rachel Carson in “The Sea Around Us” (1951) e di sviluppare un linguaggio di bolle subacquee con creature policefale nonbinarie andando a zonzo eco localizzando la mia famiglia marina allargata.
In musica ci sono molte opere legate all'acqua e forse risulterebbe ridondante chiederti un album o un ascolto a tema. Quindi vorrei chiederti di condividere della musica che ti sciolga, che faccia passare dallo stato solido a quello liquido.
Nimiia vibié di Jenna Sutela che tra linguaggi marziani e batteri spaziali estremofili fa un lavoro tra seduta spiritica e scale microscopiche che dissolve i confini tra batterio, scissione mente-corpo occidentale, linguaggio.