Soundscape immaginari
di Matteo Mannocci
La crescente possibilità e consapevolezza negli ultimi decenni nell’utilizzare suoni ‘reali’, ovvero non prodotti da strumenti musicali o dotati di una loro intonazione, ha fatto nascere negli artisti la voglia e la necessità di realizzare opere nelle quali, in un modo o nell’altro, venisse creato un vero e proprio ambiente sonoro.
All’interno della tradizione musicale classica europea, spesso sono state utilizzate forme strettamente legate a determinate situazioni sociali, che possano rimandare l’attenzione dell’ascoltatore a esperienze o situazioni conosciute in maniera diretta o indiretta. Soprattutto nel teatro musicale l’utilizzo di forme particolari e slegate dalle solite composizioni ‘colte’ come danze popolari, strutture tipiche della tradizione religiosa o ritmi e melodie del mondo militare, sono state utilizzate per far immergere gli ascoltatori in una dimensione sonora che possa rimandare a qualcosa di plausibile, seppur magico.
Quando però viene sdoganato l’utilizzo del field recording all’interno della composizione, la questione cambia drasticamente. La creazione di ambienti sonori specifici, scolpiti attraverso l’utilizzo di registrazioni di spazi reali, come e quanto influisce nelle scelte artistiche degli artisti?
Partiamo dalle basi. Il semplice utilizzo di registrazioni di ambienti caratterizzati e non editati pone già un problema. Una ricollocazione sonora di, per esempio, la foresta amazzonica in una sua registrazione presenta già una sua ricontestualizzazione, essendo quel suono il simbolo del soundscape di quel luogo. Essendo poi la natura dell’artista quella del trasformare e rimodellare i propri materiali, qualsiasi operazione di sound design non può che aggiungere strati di complessità e stranazione che allontanano dall’immagine originale. Infine, il ricombinare questi suoni, più o meno processati, insieme ad altri non può che creare un ambiente totalmente inedito, che rimane tra il verosimile e il magico, il fantastico e il plausibile.
Proprio questo limbo potrebbe essere uno degli aspetti più interessanti della produzione musicale contemporanea: la creazione di ambienti sonori totalmente artificiali, tanto riconoscibili quanto completamente alieni.
La combinazione di una registrazione ambientale amazzonica, unita a voci di bambini in una piazza siciliana, suoni di automobili, macchine industriali, rumori e silenzi possono convivere in un brano musicale in maniera del tutto naturale, trasfigurando totalmente un mondo reale in uno fittizio.
Mi chiedo quindi quante, e quali, siano le possibilità immaginifiche di questa musica ‘per ambienti’. Esistono sicuramente vari ‘casi di studio’: nella discografia contemporanea, sicuramente il filone hauntology rappresenta un ottimo esempio. L’utilizzo di campionamenti immersi in un ambiente psichedelico e onirico riesce a creare ottimamente una realtà parallela; più che inquadrare un luogo, la sua qualità di cristallizzare un momento idealizzato è forse quello che è riuscito a rendere così rilevante questo simil-movimento negli anni.
Ad aggiungere maggiore complessità, tutto lo stile vaporwave riuscì ancora meglio a creare ambienti virtuali. L’appartenenza a spazi puramente virtuali dello stile, infatti, abbatte qualsiasi pretesa di verosimiglianza tra un ambiente reale e uno digitale, permettendo agli autori di immaginare o traslare mondi immaginari in suoni organizzati.
La base di tutto questo può forse essere ritrovata nella ricca tradizione di origine etnografica ed etnomusicologica, che ha consegnato alla storia interi cataloghi di testimonianze sonore di momenti musicali iper caratterizzati, cristallizzati in dischi destinati a un’utenza diversa -e lontana- dai gruppi sociali che producono e mettono in musica questi repertori orali. Oltre al celeberrimo lavoro condotto da Alan Lomax e Diego Carpitella in Italia, una visita all’immenso catalogo Ocora contenente più di 600 diverse pubblicazioni di tradizioni musicali dal mondo riesce a trasportare in mondi e momenti lontani e solo immaginabili.
All’estremo opposto, si trovano esperienze di puri suoni naturali o di origine animale. Vi è una ricchissima tradizione di pubblicazioni dedicate a suoni di origine animale o di ambienti più o meni caratterizzati. La collana statunitense Environments, attiva fin dalla fine degli anni ‘70 per circa un decennio, ha dedicato undici dischi alla registrazione non editata di suoni oceanici, montani, boschivi, introducendo una generazione alle pratiche di field recording e a un ascolto attivo di fenomeni sonori naturali.
A ruota venne seguita da esperimenti di vario tipo come l’ormai storico “Songs of the Humpback Whale” (1970) dedicato ai canti delle balene. L’incisione di suoni di origine animali ha una storia ancora più antica e interessante, come dimostrato da pubblicazioni come “Sounds of North American Frogs”, edito dalle edizioni Smithsonian Folkways già nel 1958.
Forse proprio in virtù delle loro proprietà non-musicali, o della non eccessiva organizzazione musicale (rispetto alla tradizione eurocolta dalla quale spesso non si riesce a sfuggire affrontando l’analisi di altre culture musicali) è curioso come, combinando varie tracce di queste dischi anche solo attraverso la riproduzione contemporanea in varie finestre del proprio browser e un minimo sforzo di mixing e controllo di pitch e velocità, si riescano a creare momenti che per la sensibilità contemporanea si possano definire pienamente musicali.
Un esempio particolare di rimescolamento di field recording di origine animale a scopo artistico è quello operato dal compositore ed ecologista sonoro americano Bernie Krause. Dedicatosi per decenni allo studio e alla discussioni intorno a suoni di origine non umana -e pure non animale-, si è dedicato anche alla produzione di lavori musicali che impiegassero sempre più questi suoni, come il curioso disco del 1985 “Gorillas in the Mix”, in cui utilizza in gran parte registrazioni animali come fonte sonora per i suoi sampler.
Nel 2014 debutta il suo progetto “The Great Animal Orchestra: Symphony for Orchestra and Wild Soundscapes”, un incredibile sunto del suo studio degli ecosistemi naturali in cui le registrazioni ambientali integrano una partitura per orchestra acustica in un grande affresco della produzione animale del suono. Questo progetto, basato sul suo libro del 2012 dallo stesso titolo, si è poi evoluto in un lavoro installativo che ha visto per la prima volta la luce nel 2016 presso la Fondazione Cartier, a Parigi. “The Great Animal Orchestra” diviene così la prima installazione soundscape nell’ambito dei musei di arte contemporanea, presentandosi come un’esperienza di suono immersiva nelle registrazioni operate nel corso degli anni da Krause supportate da installazioni visive atte a traslare gli ambienti sonori proposti in presentazioni visuali del suono.
Cosa sono dunque questi ambienti più o meno raffinati, più o meno decontestualizzati o ricombinati, che la discografia ci propone? Sono simboli del mondo che abitiamo, e della percezione distorta o viziata che possiamo avere di questo? Oppure creazioni fantastiche e virtuali che l’uomo, con un esperto lavoro di foley e manipolazione, attua per immaginare altro rispetto alla realtà che lo attraversa?
Non essendo in grado di rispondere a questa domanda, se non affidandomi alle intenzioni degli autori -se presenti, e in ogni caso non per forza indice assoluto della realtà di un fenomeno- si può solo accettare che la riproduzione di registrazioni audio non può che aver creato nella nostra cultura un fenomeno totalmente inedito, ovvero quello della creazione di soundscape immaginari, plausibili e accettabili solo in una dimensione di ascolto, e all’interno dei quali si nasconde un’enorme quantità di potenziali narrativi e psicoacustici.
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IL DISCO DEL MESE
Ministry of Loneliness Theme - Renato Grieco & Rebecca Moccia
Composto in occasione della mostra di Rebecca Moccia “The Loners”, “Ministry of Loneliness Theme” è l’ultimo lavoro di Renato Grieco (kNN) e Rebecca Moccia. Attraverso le composizioni concrete di Grieco e le ricerce di Moccia sul tema della solitudine nelle società contemporanee prendono forma questi cinque brani, che presentano anche la voce di Sara Lazzaro.
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Biologie sguazzanti e percezioni altre
di Pietro Michi (PM) con Claudio Kulesko (CK)
PM:
In questi mesi ho avuto il piacere di curare la produzione e la direzione grafica di un album composto da Davide Amici, intitolato “Lights In The Pond”, da poco uscito per l’etichetta Biodiversità Records da me curata.
Durante l'ascolto delle tracce, mi ha accompagnato la visione di una pozza bioluminescente, scandagliata da tecnologie abbandonate da un'umanità nascosta o scomparsa. L'intreccio sonoro tra field recordings, strumenti acustici ed elettronici, narra di musiche suonate, in terre desolate, da ensemble di organismi che forse non vedremo mai e di artefatti, un tempo nostri compagni, che ancora parlano la nostra lingua dei dati.
Quando parlai per la prima volta con Davide, il tema delineato era “post-apocalittico”. In parte sì, questo racconto avviene dopo un'eventuale apocalisse umana, ma il termine stesso lascia una sensazione negativa e aggressiva.
E se questi suoni e melodie arrivassero davvero da un futuro senza l'uomo, quali organismi saranno presenti a valutare se aleggerà pace o paura, bellezza o squallore?
Chi ci succederà condividerà i nostri gusti o la nostra etica?
La scomparsa dell'uomo ha una connotazione positiva o negativa?
Chi ne scriverà come storia antica avrà la nostra stessa sensibilità?
Un futuro in cui ad aprire gli occhi e ad apprezzare le radiazioni solari, le onde sonore, o qualsiasi altro tipo di informazione fisica o biochimica saranno dei non-umani.
Increspature sulla superficie dell'acqua, tepore ceduto lentamente da acque stagnanti, molecole inquinanti lasciate da civiltà più antiche che ormai vengono energicamente impiegate da nuovi microrganismi.
Sarebbe bellissimo poter avere nuovi punti di vista, accumulare conoscenze non-umane, imparare dalla nostra assenza.
Per perpetuare invece la comunicazione inter-specie ho chiesto qualche parola sull'argomento (e sull'album) a Claudio Kulesko, scrittore e autore di “Ecopessimismo. Sentieri nell’Antropocene futuro”, che ho avuto il piacere di conoscere durante l'evento Weirdcore a Firenze e con cui ho da poco registrato un podcast.
CK:
Il titolo “Lights In The Pond” rimanda a due distinti fenomeni luminosi: la bioluminescenza di certi animali e piante acquatici; il riflettersi delle stelle sulla superficie di uno stagno.
In entrambi i casi si tratta di fenomeni che hanno da sempre affascinato la specie umana. A colpirci non è solo l’impressione che si tratti di fenomeni illusori, onirici o simulacrali, ma anche l’autonomia di questi tipi di illuminazione rispetto allo stesso controllo umano.
Si potrebbe persino ipotizzare che si tratti di due facce della stessa medaglia: non siamo in grado di credere che qualcosa possa davvero accadere nell’arco della giornata in cui la nostra specie è solita dormire. Da qui la tendenza umana a relegare la notte in un limbo ontologico.
Ma cosa accade quando la notte cala su un ambiente totalmente non antropizzato?
Non si può che assistere a un cortocircuito del soggetto umano, per il quale “un albero che cade nella foresta senza che nessuno lo senta” può benissimo non esistere. Allo stesso modo, non esiste un ocelot che scivola attraverso il groviglio tra pozze di luce lunare. Un contorcimento mentale che trova il proprio apice nel tentativo di immaginare il mondo privo di esseri umani: il mondo post-estinzione.
In tal senso, il filone “-synth” ha privilegiato, nelle sue forme più recenti, le soggettività non umane (animali, piante, funghi, creature fantastiche e persino il cibo). Lights In The Pond, con i suoi field recording percorsi da frequenze statiche, scariche elettriche, gemiti meccanici e sequenze melodiche, si inserisce in un percorso affine: l’idea, il sogno alla John Cage, che la melodia e l’armonia possano continuare a esistere anche senza l’essere umano, nella sua forma naturale, più libera e selvaggia.
grata a Claudio Kulesko per aver condiviso questa newsletter.
un paio d'anni fa ho ascoltato/guardato The Great Animal Orchestra alla Biennale di Sydney - una meraviglia. ambiente buio senza confini visibili se non quelli degli schermi dove si trasmettevano le onde sonore colorate. pavimento ricoperto di cuscini pouf. lì dentro per delle ore.
leggendo questa 013 mi è venuto in mente uno scritto di Joan Retallack (Geometries of Attention), di cui condivido "What we don’t know about ourselves in these complex times is equaled only by the radical independence of all that does not reflect our most cherished self-images. Is it that to come to love silence is to finally experience one’s own otherness, one’s own mongrelism, one’s own unintelligibility in playful and grave reciprocity with the rest of the world?"