Newsletter#012
Intervista ad Alessandro Bosetti
di Francesco Toninelli, Matteo Zoppi
Una conversazione con Alessandro Bosetti, compositore e artista sonoro con un particolare interesse per la musicalità del linguaggio e per la voce intesa come oggetto autonomo e strumento espressivo. Le sue opere mettono in atto un dialogo tra linguaggio, voce e suono all'interno di costruzioni tonali e formali complesse, spesso percorse da un'ironia obliqua.
Le sue ultime uscite, “FasFari” e “Portraits de Voix” sono state pubblicate da Xong Collection e Kohlaas nel Febbraio del 2024. “FasFari” è la 36esima incarnazione di Plane Talea, un archivio/strumento che Alessandro Bosetti va costruendo dal 2016 fatto di voci anonime - ad oggi più di ottanta - ordinate in migliaia di emissioni vocali (utterances).
Il record launch di queste due uscite avverrà il 22 Aprile 2024 allo Studio Brigantino di Milano, all’interno della mostra LA VOLPE SALTA SUL GHIRO MARRONE EK GIOCA CON LO ZAINO BLU, accompagnato da un sound reading di Renato Grieco.
Matteo Zoppi
Vorremmo cominciare chiedendoti cos'è che ti ha portato all'utilizzo della voce nella tua pratica artistica e qual è il tuo personale interesse nella vocalità?
Alessandro Bosetti
L’istinto. E l'idea che la voce sia qualcosa di vivo, una specie di essere a sé stante, che in fin dei conti può addirittura esistere come staccato dalla persona che la emette.
È un po’ una fantasia, una cosa impossibile, una finzione, nell'accezione di Jorge Luis Borges, oppure una metafora. Mi piace molto lavorare a partire dalle metafore.
Nel tempo ci sono stati degli scivolamenti tra tematiche come voce, parola, linguaggio, utterance, tutti insiemi che si intersecano.
La voce guizza e sfugge, non è esattamente un “oggetto”. Cerco in materiali che abbiano una componente soggettiva, o che siano in grado di appropriarsi di una soggettività e di farla vibrare.
Anche una valutazione estetica per me è soggetta a questa vitalità mutevole. Si può approcciare un materiale e pensare sia bello o brutto ( “Cos’è un suono bello ? Cos'è un suono brutto ?” canta la soprano Giulia Zaniboni nell’LP « Didone » del 2021 su Kohlhaas ). Questa valutazione però è variabile, instabile, in trasformazione. La voce funziona così, anche una lingua funziona così, forse tutto funziona così.
M.Z.
Questo tema della vitalità della voce mi porta a chiederti del rapporto con le conversazioni nelle tue composizioni. Com'è che queste si intrecciano alla ricerca vocale e musicale. Ha un'importanza peculiare in questo il poliglottismo?
A.B.
Sì, il poliglottismo ha un'importanza particolare e spesso è stato al centro dei miei lavori e lo è ancora. Per esempio nel lavoro in corso sul Griko salentino che sto preparando su invito di Donato Epiro anche se in questo caso si tratta forse di più di “emiglottismo” visto che è una lingua che capisco a metà.
Ho lavorato spesso sulle lingue che conosco e su altre che non conosco, per esempio sui resti della lingua coloniale italiana nel Tigrino Eritreo in «Spinoza und der Fisch» ( Deutschlandfunk Kultur 2013) e «Le parole dell’Eritrea» ( Rai Radio3 - Tre soldi, 2012), oppoure sul coreano in « Guryong - Voice as trash » del 2016 o nel DVD « Autumnal Sisters », con Taeyong Kim & Orolo del 2015.
O ancora, facendo dodici ritratti di lingue che non conosco in « Zwölfzungen, 12 portraits of languages I don't understand » ( Deutschlandfunk Kultur/Sedimental) del 2006.
Ho una qualche facilità per le lingue, pensare in più lingue è una cosa che mi è sempre piaciuta. Il dépaysement è un modo alternativo per appropriarsi di un concetto o di esprimere o di sentire un'emozione. È anche un modo di pensare l'alterità, perché quando tu parli una lingua altra, pensi anche un po’ come un altro.
In una luce più politica, credo molto nel bisogno di tolleranza che nasce dall'esperienza dell’alterità, cioè del calarsi nell'esperienza dell'altro, in ciò che non si conosce, non soltanto a livello teorico, ma viaggiando veramente in mondi mentali, linguistici ed estetici che non sono i nostri.
M.Z.
Espandendo un po’ la precedente domanda, questo vedersi da un'altra prospettiva, rispecchia in qualche modo anche il dialogo che poi si crea tra le voci che compongono un pezzo. Ma com'è poi che la parola si intreccia alla composizione musicale?
A.B.
Ci sono tante gradazioni di senso. Si passa dal suono puro a una parola che dice il suo nome.
Amo molto la poesia sonora e fonetica, il lettrismo, François Dufrêne, Henri Chopin, e quello che mi affascina in questa tradizione è un’ambiguità tra senso e non senso, e tra senso e suono e non l’abolizione del senso, per quanto liberatoria questa possa essere. Il senso c’è sempre da qualche parte. Magari è tenue, è ridotto o nascosto, però c’è sempre una tensione.
«Plane/Talea» è un archivio di voci anonime la cui ultima incarnazione discografica, è l’LP «FasFari», su Xong quasi completamente a-semantico, ma qualche piccolo frammento di senso è sempre dietro l’angolo, e qualsiasi piccolo frammento di voce, qualsiasi utterance, si porta sempre dietro un bagaglio, un piccolo zainetto di referenzialità. Non riusciamo a fare a meno di chiederci: “ma cosa sta dicendo?”. Cerco di liberarmi del bagaglio, però so che non è mai completamente possibile e quindi ci gioco un po' a seconda dei contesti.
E per tornare alle conversazioni, nelle conversazioni c’è una quantità incredibile di dettagli e di suggerimenti musicali. I ritmi che si trovano in una prosodia parlata sono ricchissimi e diversi dai ritmi che si ricavano dividendo in modo matematico una pulsazione. Le intonazioni sono sorprendenti. E soprattutto il contrappunto tra più voci che parlano, è pieno di suggerimenti per fare musica, è musica in sé.
Personalmente sono affascinato dal contrappunto classico e dalla scrittura polifonica, da Luca Marenzio e Carlo Gesualdo fino a Georges Aperghis o Salvatore Sciarrino. È una tradizione che studio. Alla fine dei «Portraits de voix» ( 2024 Kohlhaas, con i Neuevocalsolisten Stuttgart ) c’è un madrigale in piena regola, tutto il disco è di fatto una serie di madrigali.
Per lo studio della polifonia niente è più interessante dell'ascolto di conversazioni tra persone. Quando le ascoltiamo assaporiamo questo bisogno di spaccarsi ed essere multipli. Cosa succede quando diventiamo più orecchie ? Quando ascoltiamo più cose allo stesso tempo?
Francesco Toninelli
Si dice che se la musica classica occidentale si basa sulla tensione tra melodia e armonia, quella indiana si basa sulla tensione tra melodia e ritmo. Molta della tua musica sembra coinvolgere una tensione tra concetto e parametri musicali tradizionali (armonia, melodia, ritmo), con risultati che fanno spesso trasparire un'ironia e un divertimento di fondo. È così?
A.B.
È un modo di vedere le cose. Un po' dualista. Sicuramente la tensione è qualcosa che serve per mettere energia da qualche parte. Che la tensione accada tra mondi diversi - anche incommensurabili tra loro come possono esserlo per esempio il concettuale e il sonoro - credo che mi interessasse già molto prima di poter razionalizzare la cosa.
Di recente, nelle «Coniugazioni» che uscirà presto su Canti Magnetici, ho fatto delle esplorazioni mettendo a confronto dei mondi davvero incommensurabili come quello della grammatica con quello dell’armonia. Mi sono interrogato sulla tensione tra loro e sulla capacità dell'armonia di “modulare”, di trasformare un environment.
Nell’environment hai un oggetto e questo oggetto non cambia in sé, ma cambia perché il contesto attorno ad esso si è trasformato.
Detto banalmente, a livello armonico un motivo musicale in maggiore o in minore è contemporaneamente lo stesso e un altro. E la grammatica fa una cosa simile, nel senso che se tu coniughi una frase al passato o al futuro dici la stessa cosa ma la stai ribaltando attraverso una specie di modulazione. Ho provato a creare delle cose che usano questo doppio binario facendo evolvere dei tessuti grammaticali e armonici assieme.
Le «Coniugazioni» che ho dato a Donato per Canti Magnetici sono dei mantra fatti di verbi che cambiano coniugazione, e quando cambia la coniugazione del verbo cambia anche il contesto armonico.
Nell’armonia le tensioni stanno spesso nelle inflessioni. Una differenza di pochi centesimi di tono ti fa andare su un armonico giusto oppure su qualcosa di appena a fianco che è pieno di battimenti e lo stesso succede nelle voci o nei dialetti, in cui sono le micro-differenze a saltare all’orecchio.
M.Z.
Mi sembra molto interessante tornare a capire come sempre di traduzione si parli, tra le lingue, i linguaggi, ma anche tra un ascoltatore e un produttore di suono.
A.B.
Si può sempre parlarne in chiave di tensione o, se vuoi, di desiderio. La musica occidentale ha messo in piedi questo desiderio di tonalità e di gravitazione potentissimo. La musica indiana lo fa in modo diverso. Credo che in tanta musica ci sia una tensione tra quello la cosiddetta tradizione e le cosiddette avanguardie. Il mettersi in tensione tra loro di codici diversi, o tra sonorità che sono accettate anche socialmente e altre che non lo sono. È comunque un modo un po dualista di vedere le cose… per come vanno le cose nel mondo occorre pensare al di fuori da campi di tensione troppo binari.
M.Z.
Parlando di tensione allora, sicuramente negli ultimi anni la voce è stato un elemento costituente e che ha caratterizzato molti dei tuoi lavori, rimane però nelle tue composizioni un lavoro anche strumentale che porti avanti e che non ha relazione con essa?
F.T.
Questo dal punto di vista discografico, non necessariamente recente, ma anche più indietro nel tempo.
A.B.
Negli ultimi anni ho fatto tanto lavoro sugli strumenti. C'è un disco in solo di pianoforte per Reinier van Houdt, per esempio che è in attesa su ThreeFour Records. C'è tutta una serie di composizioni con Gareth Davis, Anne Gillot e Vincent Lhermet, ovvero i «Pièces à pédale», un progetto sulle conversazioni in collaborazione con un gruppo di matematici dell'università di Nantes ( «Les Pièces à pédale», Athenor 2021 ) con cui abbiamo lavorato su dei sistemi di conversazioni modulate. Oppure il lavoro recente con l’ensemble Instant Donné ( «Contar» al Festival D’Automne à Paris, 2023 nel contesto di un focus dedicato al compositore Pierre Yves Macé ) .
La cosa che mi occupa di più in questo periodo, è la scrittura di un pezzo sulla “memoria degli intervalli” per l’Ensemble Dedalus. ( «Histoire sentimentale des intervalles» ). I dischi arrivano sempre con un po' di ritardo. Forse anche perché i progetti strumentali sono più complicati da registrare, richiedono un itinerario più lungo per arrivare a delle registrazioni che funzionino veramente.
Il trait d’union tra questi lavori e il campo largo della voce è stato «Diario di bordo» ( GMEM - centre national de création, 2018), un progetto con Alexandre Babel, Carol Robinson e Kenta Nagai, in cui io ri-canto ciò che mia madre ha scritto in un diario durante un viaggio in barca a vela conciso con la sua separazione negli anni settanta del secolo scorso.
In «Diario di bordo» la voce è al centro di una scrittura strumentale per Kenta, Carol e Alex. Il mio rapporto con gli strumenti è sempre molto legato a chi li suona.
È comunque senz’altro vero che la stragrande maggioranza dei miei lavori gira attorno alla voce. Penso alle due ultime uscite discografiche, «FasFari» su Xong e «Portait de voix» su Kohlhaas.
F.T.
Vuoi dire qualcosa su queste due uscite recenti (una su vinile per Xong collection, anche accompagnata da delle edizioni speciali con delle tavole autografe, e l’altra su CD per Kolhaas)??
A.B.
«FasFari» è un’ultima incarnazione di «Plane/Talea», un progetto legato ad un archivio di voci che raccolgo da vari anni. Ci sono già stati dischi di «Plane/Talea» che mettevano questo archivio al centro ma dove ancora usavo di tanto in tanto altri materiali; «FasFari» invece riflette la pratica degli ultimi anni in cui ho suonato concerti usando esclusivamente i materiali dell’archivio, le voci, quindi se volete è musica elettroacustica ma “a cappella”. Non ci sono altre fonti oltre ai frammenti vocali, che non vengono trasformati ma solo ricombinanti. A volte i frammenti che si sovrappongono sono tantissimi, le sonorità si allontanano molto da quello che noi siamo abituati a conoscere della voce, ma non c’è nessuna trasformazione elettronica.
«Portraits de Voix» parte da degli assunti simili. Se in «Plane/Talea» le voci dell’archivio sono quasi cento, nel caso di «Portraits de Voix» mi sono concentrato solo su quattro voci di cui ho deciso di fare il ritratto. Mi sono rivolto a quattro persone di cui mi interessava la voce e gli ho detto: “vorrei fare il ritratto della tua voce, quello della voce, non il tuo !”.
Nel disco uso delle tecniche che assomigliano a quelle di «Plane/Talea», ma le associo alla scrittura per un ensemble vocale, i Neue Vocalsolisten Stuttgart. L’ensemble diventa una specie di lente che amplifica ed espande i dettagli che emergono dalle voci ritratte.
Anche in questo caso c’è stato molto lavoro sull'armonia, nel senso che ricombinando i frammenti delle voci emergono spesso dei materiali armonici, più o meno giusti, più o meno consonanti o dissonanti e quindi ho usato l’ensemble vocale per far germogliare e per dispiegare quei dettagli armonici su una tessitura che è che va dal basso al soprano, per avere una specie di lente armonica che li ingrandisce.
F.T.
Questa cosa è interessante, considerando che lavori come questo partono più da quello che raccogli che da scelte forti a priori e la domanda che viene spontanea è: che cosa succede quando fai le registrazioni da cui poi elabori i ritratti? Come funziona questo bozzetto?
A.B.
Credo che sia una forma di astrazione. Mi piace molto passare del tempo con i miei materiali, esercitarmi come ci si esercita con uno strumento; io vengo dalla pratica strumentale e sento il desiderio di passare del tempo con lo strumento, si trasforma lui e mi trasformo io. E quindi faccio lo stesso con questi materiali, ci passo molto tempo per vedere quello che mi suscitano. Io divento un po loro, loro diventano un po me. Ci sono tante cose che succedono, considerazioni estetiche, proiezioni.
Anche il rapporto con l'ironia è sempre un po' in bilico, sono delle sabbie mobili semantiche. Ci sono cose che magari mi fanno ridere, ma so che mi fanno ridere in un momento e magari non in un altro. Un comico che fa una battuta in televisione sa che la sua battuta ha un senso preciso in quel momento, che fa ridere le persone in quel momento, in quel contesto, deve essere così altrimenti è un flop.
Nei materiali che uso ci sono cose che a volte mi fanno molto ridere e altre no. In certi momenti mi stacco e le osservo come cose che non hanno più niente di comico, altre volte mi avvicino e mi piace ridere di nuovo. È un gioco misterioso anche per me.
Per fare un altro esempio, nell’ «Histoire sentimentale des intervalles» che sto scrivendo per l’ensemble Dedalus ho creato una mappa armonica fatta di 28 pitches ( altezze). Per generare ho incontrato ciascuno dei musicisti dell'ensemble, che sono sette, e gli ho fatto cantare, senza accordarsi, le prime quattro note che gli sono venute in mente. Con le note raccolte ( 7 X 4 = 28 note) ho realizzato una mappa armonica e poi ho scritto della musica usando unicamente questa mappa in cui, per forza di cose, ho trovato degli intervalli giusti e altri intervalli che invece non sono giusti per niente.
Questa mappa armonica è un po’ un objet trouvé. È il frutto di una divinazione armonica, simile alle forme di divinazione in cui si gettavano oggetti a caso o si guardava la direzione in cui volavano i colombi liberati dai sacerdoti nel tempio di Giove.
C'è anche però una tensione tra gli intervalli giusti e quelli non giusti, perché ci sono tutta una serie di intervalli consonanti che ti chiamano, diciamo, e tu puoi chiederti, “vado lì o vado di fianco dove ci sono altri intervalli completamente stonati e che battono? Sto facendo una scelta io oppure è la materia che mi sta chiamando?”. Quindi per capire cosa ( devo? voglio? ) fare ci passo molto tempo, cerco di fare astrazione delle prime associazioni che mi vengono. Magari il mio sentire può attingere dagli errori, dalle coincidenze, dagli inciampi e può essere manovrato per cambiare strada e andare da un'altra parte.
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UMIDO - 100 modi per creare un videogioco da un calzino
di Pietro Michi
Sono qui per parlare di metodo, velocità e stile.
Partiamo dal principio: Sokpop è un collettivo, portato avanti da quattro ragazzi olandesi, dedito alla creazione di videogiochi. Quella che si potrebbe definire la golden age di Sokpop probabilmente è finita, ma non è mai troppo tardi per parlare di questo peculiare team.
Sokpop nasce nel 2015 da un gruppo di amici affascinati dalle Game Jam, successivamente nel 2017 hanno deciso di iniziare a produrre giochi tramite una propria etichetta indipendente, e da quel momento fino a fine 2023 hanno realizzato 100 giochi! Il loro tasso di pubblicazione ha toccato picchi di due titoli al mese!
Il tutto è principalmente gestito tramite Patreon, promettendo appunto uno o due giochi al mese a chi era iscritto, successivamente è approdato anche su Itch e infine sul più poplare Steam. Attualmente tutto il catalogo è riversato su queste piattaforme ed è possibile giocare ai loro giochi con prezzi accessibili. Personalmente ne ho giocati una decina, e ho apprezzato molto l’estetica che li caratterizza e la purezza nel raggiungere il loro scopo. (∩˃o˂∩)♡
Il progetto è stato fin da subito molto amato dal pubblico, tanto da far si che il progetto diventasse anche una realtà economicamente sostenibile per i quattro fondatori.
Personalmente, giocando ai loro titoli, ho come l’impressione che il loro punto di forza sia non avere un ideale di gioco, un gioco che deve per forza essere perfetto, il gioco della vita.
La staffetta di programmazione faceva sì che ognuno passasse due mesi per la realizzazione di un intero gioco in autonomia, in modo che potessero rendere pubblico un gioco ogni due settimane sul loro Patreon.
È quindi facile intuire che se vuoi creare il gioco che sognavi a 13 anni, un open world con 100 ore di gameplay pieno di cose complicatissime, in due mesi, da solo, hai sbagliato contesto… Nessun progetto velleitario, siamo concreti. ¯\_(ツ)_/¯
Ogni volta qualcosa di nuovo: horror con topolini, text-based MMORPG, giochi di carte, god simulator, giardini da annaffiare. Ogni volta i giochi Sokpop arrivano dritti al giocatore, li vuoi giocare, li consumi in un tempo ragionevole, e sei pronto al prossimo. Nessun sintomo da impantanamento da 3000 ore come su alcuni giochi AAA, di quelli che ti fanno diventare un cultista e abbandonare qualche amicizia. Il tasso di consumo è il perfetto equilibrio tra un consumatore di Reel di Instagram e un amante dei film da 90 minuti. (b^_^)b
Alcuni dei loro giochi hanno fatto il giro del mondo più e più volte… Vendendo, solo su Steam, centinaia di migliaia di copie!
Attualmente la politica Sokpop è cambiata, la cadenza non è più quella di una volta, ma non gli si fa una colpa di questo, il progetto è durato il suo tempo, e direi che hanno azzeccato le tempistiche anche in questo caso!
Il cambio di rotta servirà di sicuro ad evitare un burnout da stress, un riciclarsi di idee, e un maggiore sviluppo personale; tutte cose che direi si sono largamente meritati in questi anni.
I tempi si sono quindi dilatati, e per ora ho solo spulciato i trailer dei nuovi giochi post iper-accelerazione, di sicuro sono già nelle mie wishlist, e non appena avrò il coraggio di vedere un gioco della nuova era Sokpop penso che inizierò con “Frog's Adventure”. ₍𝄐 ̫͡ 𝄐₎
Appello generale: per favore condividete i vostri progetti, non aspettate che sia troppo tardi ( •̯́ ₃ •̯̀)