Un mondo di rumori
di Matteo Mannocci
PREMESSA
Quando abbiamo lanciato il progetto di Golem, nel gennaio di quest’anno, abbiamo deciso di cominciare con un articolo riguardo “L’arte dei rumori”, il manifesto di musica futurista scritto nel 1913 da Luigi Russolo. Lo scritto in questione, oltre all’innegabile importanza storica come primo documento a teorizzare il rumorismo, ha il merito di aver intuito quel processo di mimesi tra paesaggi sonori e l’evoluzione degli stili musicali degli ultimi decenni.
Il rumore, inteso nella sua definizione di fenomeno acustico ‘non musicale’, permea infatti la nostra esperienza, creando di volta in volta paesaggi sonori ricchissimi di elementi sempre diversi. Dai delicati affreschi della campagna agli intensi schizzi di una fabbrica o un centro cittadino, la riflessione sull’ecologia sonora è stata portata avanti sia sul piano teorico che su quello pratico da studiosə e musicistə che andremo, anche se solo in parte, a presentare e analizzare.
TACET
Quando nel 1952 John Cage presentò nello Stato di New York 4’33’’, la sua composizione più nota, aprì una strada completamente nuova all’ascolto e alla concezione del suono. Lo spartito, che delineava la composizione nei suoi tre movimenti, presentava un solo avviso: Tacet. Questa azione, eseguita attraverso la chiusura della tastiera del pianoforte da parte dell’esecutore, sembra destinare la sala al silenzio.
Ma, come sperimentato da Cage stesso all’interno di una camera semianecoica nel 1951, non esiste su questa Terra l’attuazione del silenzio assoluto. E allora cosa sentirono gli ascoltatori? Semplicemente, i rumori di ciò che circondava l’auditorium di Woodstock, aiutati anche dall’apertura sulla foresta: alle orecchie dei presenti non venivano presentate le note scritte dal compositore, ma l’unico, irripetibile, paesaggio sonoro presente nel luogo e nel momento dell’esecuzione.
Parlando della sua predilezione per questo brano tra tutti quelli composti nell’arco della sua carriera, Cage diceva che era il suo preferito in quanto “non ne hai bisogno per ascoltarlo”. Quella che apparentemente può sembrare una risposta ironica, però, nasconde il percorso intrapreso da Cage nel mondo della filosofia orientale, come spiega in un’intervista a Stephen Montague in occasione dei suoi settant’anni: “È sempre lì. Può cambiare la tua mente, aprirla a cose che sono al di fuori. Cambia continuamente. Non è mai stata la stessa cosa per due volte. Infatti, si sa tradizionalmente in India l’affermazione che la musica è continua. In India si dice: “La musica è continua, siamo noi ad allontanarci” Quindi ogni volta che si sente il bisogno di un po’ di musica tutto ciò che bisogna fare è prestare attenzione ai suoni che ti circondano. Io penso sempre al mio pezzo silenzioso prima di scriverne uno nuovo”. E ancora: “Ha una logica, l’assenza di attività, che è anche tipicamente buddista… dunque, se vuoi che la ruota si fermi e la ruota è le Quattro Nobili Verità: la prima è “la vita è attività”, alle volte tradotto come “la vita è sofferenza”. Se la ruota viene portata a fermarsi, l’attività deve fermarsi. La cosa meravigliosa è che quando l’attività si ferma quello che immediatamente viene notato è che il resto del mondo non si è fermato. Non esiste luogo dove non vi sia attività.”
Quindi, nell’impossibilità di cessare l’attività, o di trovare il silenzio, farsi parte del tutto, assistere al mondo come esperienza sonora. Ma non solo, dato che nell’opera di Cage il silenzio trova un ruolo molto importante anche quando il musicista viene chiamato ad agire. Il silenzio quindi come parte integrante della musica moderna, o anche aggregatore di rumori inseriti o casuali, a seconda dello spazio in cui ci si trova. Perché, per tornare a citare il compositore statunitense, questa enorme gamma di eventi sonori “sono utili alla nuova musica quanto le cosiddette note musicali, per il semplice motivo che sono suoni”.
LISTEN
Sulle basi cageiane, sia dal punto di vista artistico quanto di quello filosofico, dobbiamo basarci per comprendere il lavoro sull’ascolto portato avanti da Pauline Oliveros, musicista e compositrice statunitense scomparsa nel 2016 e teorizzatrice della pratica del ‘Deep Listening’. Questo insieme di pratiche di ascolto profondo, raccolte in un libro da poco riedito in Italia da Timeo, mirano a un rapporto consapevole con il mondo di suoni e rumori che ci circonda, in modo da sviluppare sia il proprio spirito creativo che in ottica relazionale.
“Il deep listening”, citando Oliveros, “consiste per me nell’imparare a espandere la percezione uditiva fino a includere l’intero continuum spazio-temporale del suono, abbracciandone il più possibile la vastità e la complessità. […] Espandere l’ascolto significa essere connessi alla totalità dell’ambiente che ci circonda, e a qualcosa di ancora più vasto.” La pratica dell’ascolto totale quindi non ci connette al mondo (o se volete vedere più in piccolo, al nostro ecosistema) solo da un punto di vista meditativo, ma nella misura di esseri animali coscienti, consapevoli, attenti a quello che li circonda. Comprendere la propria presenza nello spazio quindi anche per trovare una propria dimensione, anche sonora.
La dimensione di ascolto profondo, declinata invece in riflessione di ecologia acustica, è il punto centrale dell’indagine del compositore e musicologo Raymond Murray Schafer, autore del seminale “Soundscape” (tradotto in italiano come “Il paesaggio sonoro”). Nella sua approfondita indagine, che ha dato il là ai Soundscape Studies, Murray Schafer analizza come i rumori abbiano permeato sempre più la nostra realtà acustica dall’avvento della rivoluzione industriale e mira a un ascolto consapevole del nostro ecosistema sonoro per intendere la relazione tra questo tipo di suoni e lo spazio che attraversiamo.
D’altronde si tratta di attuare meccaniche di ascolto a loro modo simili a quelle che applichiamo nell’affrontare un ascolto critico di brani musicali. Svuotandoci di vuote retoriche estetiche e morali e rimettendo l’evento musicale nella sua dimensione di insieme di suoni umanamente organizzati vengono meno tutte quelle barriere legate al contesto storico-culturale e geografico (estetiche, gusti, forme) e troppo volte sentite domande odiose del tipo “e sarebbe musica, questa?”. Riflettendo solo sul risultato e sulla relazione con l’opera in questione, senza perdersi in tecnicismi spesso inutilmente retorici come intenzione, mezzi e tecniche, si riesce ad avere un rapporto diretto con ciò di cui stiamo avendo esperienza, tanto a livello fisiologico (il sentire) quanto sul piano intellettuale (l’ascolto). Quando ci approcciamo al mondo nella sua veste acustica quindi dovremmo essere in grado di saper decifrare i suoni che l’ambiente ci propone, anche in un percorso consapevole di lotta all’inquinamento sonoro.
In quanto l’onnipresenza di rumori di natura antropica sovrasta le impronte acustiche dei paesaggi, questi arrivano a perdere la propria individualità, in un processo di omologazione che rende in particolar modo i paesaggi urbani vittima dello stesso spartito: un insieme di suoni di automobili, aerei, e macchine varie che distruggono il marchio di unicità che rende uno spazio ‘luogo’. Secondo la definizione formulata nel 2000 a Firenze durante la stesura della Convenzione Europea del Paesaggio: «"Paesaggio" designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle persone, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni».
Nel percorso -che sembra ancora lungo e difficile- che ci porta a una consapevolezza maggiore dell’ambiente acustico che attraversiamo, sembra anche d’obbligo andare a vedere come gli artisti abbiano quindi pensate alle intersezioni tra spazi, rumori, e opere musicali.
LIVE THROUGH
Uno dei primi musicisti occidentali che abbia intrapreso una seria relazione tra spazi e suono sembra essere Erik Satie. Il compositore francese, che già nel suo periodo impressionista aveva posato le fondamenta di una futura musica ambient, pensò ad alcune musiche che inserì negli intermezzi di una rappresentazione teatrale svoltasi in una galleria parigina nel 1920. Questa ‘musica d’arredamento’ (“Musique d'ameublement”) rispondeva a una provocazione dello stesso Satie, che nei crescenti mezzi di produzione vedeva un impoverimento dell’opera musicale, sempre più bene di consumo spacciato per opera artistica. La nullità della città moderna in forma di musica, composizioni orchestrali di puro fine utilitario e senza anima. A quanto risulta, la provocazione ottenne proprio l’effetto sperato: durante l’esecuzione di questi brani il pubblico ancora ancorato a una fruizione ‘diretta’ della musica infatti la concepì come evento principale, mentre nella mente del compositore si trattava di pura ‘tappezzeria’, all’interno della quale la gente si muovesse e parlasse liberamente tra loro, ignorandola. Più fonti ricordano come Satie infatti si precipitasse in mezzo al pubblico, invitandoli a muoversi e a parlare.
Il passo lungo più di sessant’anni tra questa esperienza e la musica per aeroporti di Brian Eno sembra, in realtà, molto breve. Il musicista inglese infatti, in anni in cui rifletteva molto su forme astratte e musiche distese, decise di ambientare la propria ‘musica inutile’ in una sala d’attesa in aeroporto. Melodie melliflue e perse nell’aria, la stessa dove gli ascoltatori passivi avrebbero volato da lì a breve.
La ‘profezia’ di Satie si era avverata: in quei 68 anni la musica d’arredamento era diventata non solo il capostipite di un genere musicale, ma anche una norma. Dalla musica per ascensori all’easy listening televisivo e radiofonico, legioni di suono senza identità assaltano le vite delle persone, in un dualismo con il mondo di rumori che giorno dopo giorno divora l’impronta acustica dei loro paesaggi. Alfiere di questa rivoluzione, con la solita ironia che la Storia riserva, è proprio uno degli eroi di quel mondo discografico che nel 1920 cominciava a formarsi e cha Satie temeva in particolar modo per la retorica pubblicista che tende a intellettualizzare il mediocre. O anche che Eno andasse a nobilitare proprio uno dei luoghi da cui nasce il frastuono, ovvero l’aeroporto.
Chi allora riuscì a intuire al meglio il rapporto tra il moderno spazio urbano e l’evento musicale fu proprio Luigi Russolo con la sua orchestra di Intonarumori. La sua visione della moltitudine di “rumori di tram, di motori a scoppio, di carrozze e di folle vocianti” che nel 1913 irrompevano nella realtà acustica occidentale e che sarebbero state destinate a caratterizzarla sia da un punto di vista paesaggistico che musicale, rompendo quel “cerchio ristretto di suoni puri” in un mondo pronto a “conquistare la varietà infinita dei suoni-rumori”.
Un mondo in cui anche grazie alle conquiste della tecnica diviene sempre più difficile distinguere tra suoni generati elettronicamente ed eventi sonori del mondo reale, e che con la successiva rivoluzione ‘concreta’ di Pierre Schaeffer si pone anche come fonte e tecnica primaria di un processo artistico in cui l’oggetto (l’opera musicale) e lo sfondo (il mondo nella sua complessità di rumori) si legano indissolubilmente, in un realismo magico in cui immaginare paesaggi possibili o surrealisti.
E proprio questo è il pensiero dell’ultimo dei protagonisti di questa disamina, l’artista multimediale e compositore Chino Amobi, che nel 2016 realizza una risposta al disco del 1988 di Eno: “Airport Music for Black Folks”. Realizzato durante una residenza a Berlino, Chino Amobi ambienta sette traccie in sei aeroporti europei che ha attraversato, di fatto invertendo a livello di senso e di estetica il lavoro del musicista inglese.
Al posto di delicati sintetizzatori e cori angelici, un collage di inquietanti collage sonori e muri di noise, in una rilettura critica di un ambiente sociale -frammentato, individualista, tecnocratico, inquisitorio- e acustico. Viene dunque da chiedersi se, parlando di musica per ambienti, non sia più efficace il percorso che va dal futurista Russolo a Chino Amobi che quello più astratto e melodico che da Satie ed Eno prosegue con svariati epigoni contemporanei a spalmare entità amorfe di suono esteticamente meditative.
A conclusione di questa riflessione, voglio proporre una citazione diretta da “Il paesaggio sonoro” di Murray Schafer, come invito a una riflessione -e discussione- condivisa sul ruolo dei rumori e del loro utilizzo artistico e critico nel panorama contemporaneo:
“Proprio questo progressivo venir meno di una distinzione tra musica e rumori dell’ambiente potrebbe in ultima analisi rivelarsi la caratteristica principale della musica di tutto il XX secolo. In ogni caso questi sviluppi hanno inevitabili conseguenze nel campo dell’educazione musicale. In passato, un musicista era solitamente un individuo in grado di ascoltare con la delicatezza di un sismografo quando si trovava all’interno di una sala da concerto, ma che indossava dei paraorecchi quando ne usciva. Se esiste un problema di inquinamento acustico nel mondo di oggi, questo è certamente dovuto in parte (e forse in gran parte) al fatto che gli insegnanti di musica non sono riusciti a educare il pubblico e gli studenti a essere realmente consapevoli del paesaggio sonoro, un paesaggio che, dal 1913, ha cessato di essere divisibile due distinti universi, quello musicale e quello non-musicale”.
Segui GOLEM su Instagram:
SEGNALAZIONI - ESTATE ‘23
di DPK800
Per recuperare le tante uscite di questa lunga estate, abbiamo deciso di preparare per voi un listone, con il doppio dei soliti dischi. Insomma ce ne dovrebbe essere per tutti i gusti e speriamo che arrivi un po’ di fresco. Per aprire i dischi, clikka sulla copertina.
Tornati dall’estate più lunga di sempre che ancora sembra perdurare diamoci una rinfrescata con alcune uscite dei tre mesi passati, una bella compilation (che stanno tornando di moda negli ultimi anni come nei 90’) i cui proventi andranno alle persone che subiscono violenze domestiche.
Il recupero immancabile del disco mina di Ziúr: stiamo parlando di Eyeroll, bello pieno di collab fra l’immancabile Elvin Brandi, la voce splendida di Abdullah Miniawy, il nuovo rap di Iceboy Violet, James Ginzburg, Ledef e Juliana Huxtable… che dire Ziúr sempre meglio, sempre una spanna sopra.
Dal pazzo De Babalon con l’uscita Vale su Vaagner etichetta dedita al noise/ambient/ritmiche fredde del nord.
Il grande Spykidelic che esce dopo la collab con Human Inferno con un album solista Fortress Addo. Fatevi assorbire dall’oscurità.
Le ritmiche di Deena che ci portano un po’ nei club arabi.
CRAVE (segnalato dal ‘nostro’ De’Lamperi) che ci porta nel suo disagio {[se vi piace il noise e la trap è il vostro]}
Aunty Rayzor che ci fa sentire il rap nigeriano e infiamma gli spiriti.
Mu-Tate che fonde RnB, field recordings e ambient.
Non possiamo non lasciarvi con DJ K che fin da 17 anni produce baile funk e il suo PANICO NO SUBMUNDO perché ce lo meritiamo.
il +1
di Pietro Michi

“Following the cyber-tragedy of two albums getting bootlegged in the digital crypts of DarkNet curation markets, released on the mixed-reality biome Most Dismal Swamp, EUPHORIA is the official follow up album THE ONLY WAY WE KNOW TO HAVE FUN [self-released, summer 2021] and a multimedia ecosystem by the ENGLAND'S COUNCIL OF LEGISLATION AND GOVERNING BODY OF HYPER REAL SIMULATIONS AND CONSTRUCTS [a.k.a ecolagbohrsac2021].”
EUPHORIA è un uscita piena di correlati, che spazia dal mondo fisico al deep web. Un album oscuro come il medioevo, da cui prende spunto, o come il DarkNet, ma che riesce a spaziare fino al più puro divertimento.
L’impressione è quella di giocare al pc ed aprire un forziere in un RPG, ritrovandosi un file ZIP direttamente sul desktop al cui interno vi sono 12 tracce. Non tutto torna ma di sicuro l’indigestione di sonorità che si ha durante l’ascolto ha una sua potenza evocativa, allo stesso tempo contemporanea e nostalgica.
UMIDO - Questione di spazi
di Pietro Michi
Negli anni precedenti al 2000 le possibilità di registrare musica in autonomia erano molto più ristrette per chi non disponeva di mezzi economici adeguati o per chi viveva in zone remote.
In molte registrazioni effettuate tra gli anni ‘80 e ‘90 realizzate da gruppi di ragazzini, con estreme esigenze di espressione ma poche possibilità, è particolarmente riconoscibile il mezzo e l’ambiente di registrazione. Un microfono di un walkman in un garage, una piastra per audiocassette in salotto, magari ogni tanto si riesce a percepire cosa stava succedendo, o se fuori stesse piovendo.
Molte delle produzioni Black Metal o Hardcore Punk a quei tempi partivano da questi presupposti, e in parte anche nella loro evoluzione, di fronte alle nuove possibilità, alcuni amanti delle sonorità più pure del genere continuano a ricercare suoni di spazi marginali, fuori dagli studi, o simulazioni digitali di ambienti altri.
Molti sono i generi che sfruttano suoni “sporchi” basta pensare alla nascita di veri e propri approcci lo-fi, come nell’hip hop. Questa grana sonora o il suono della saturazione e di altre imperfezioni riportano all’orecchio una percezione di realtà, che riesce a smuovere qualcosa di intimo o vissuto.
La ricerca di sonorità sporche, di spazi con riverberi specifici o suoni ambientali più o meno riconoscibili fa parte quindi sia della musica di ricerca che di quella più pop, e in alcuni casi anche di alcuni brani commerciali.
Un fenomeno particolarmente interessante è stato “But You're In The Bathroom At A Party” che nasce, probabilmente per gioco, intorno al 2018 per poi diventare particolarmente virale nel 2020, sviluppandosi attraverso SoundCloud e Youtube dove alcune tracce sono arrivate a milioni di riproduzioni. Qui si possono ascoltare brani tendenzialmente famosi ma riprodotti come se si stessero ascoltando dal bagno durante una festa, o in discoteca. Spesso si trovano anche dei mixati per anno, in cui viene fatta una selezione di brani ad esempio del 2013: questa tendenza di musica retromane coincide con la richiesta auditiva di chi ascolta, che cerca proprio un idea di realtà attraverso il ricordo e la nostalgia.
Un’azione che elabora in maniera interessante questo fenomeno è stata intrapresa da Inner Most, etichetta indipendente coordinata da Yaka ed Echinacea con base in Messico ed Islanda, che ha realizzato due compilation da 28 brani uscite nel 2021 e nel 2022 dal titolo “But You Are”. Ci troviamo davanti una raccolta di pezzi realizzati da svariati artisti che propongono varie situazioni d’ascolto, realistiche o immaginarie e artefatte, alcuni esempi sono:
“Yaka - “Fire & Blood” But you're listening to it from another car at a stoplight”
“Astral Trellis - Shuffling iTunes But William Basinski messed with your library”
“Sap As Tears - "Slow Reaction” But you’re accepting positive affirmations from a fairy”
“Abers - "Take Me Home, Country Roads" But you're breaking down on the interstate”