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Musica Interattiva
di Giuseppe di Lorenzo
Immaginatevi di trovarvi nel corridoio di quello che sembra essere un vecchio hotel tirato a lucido, carta da parati anni ’30, preziose intarsiature sul soffitto in mogano, le lampade che temperano l’ambiente di un calore elegante ma informale. Dopo pochi passi al suo interno questo ambiente cambia radicalmente, là dove c’era un muro adesso la carta da parati deflagra in un frattale, cominciate a cadere senza sosta in infinite variazioni di quello stesso corridoio e nel frattempo cresce d’intensità una musica extradiegetica che si modula perfettamente con il vostro progredire per le stanze, una corsa metal-sinfonica-progressiva che cambia tema e riff sulla base del vostro avanzamento. Questo, tra altre mille cose, è quello che accade in una missione di “Control”, videogioco sviluppato dalla finlandese Remedy e pubblicato nel 2019 da 505 Games, un’opera che punta al continuo disorientamento sensoriale del giocatore, utilizzando la musica come elemento immersivo-drammaturgico.
In un film la funzione drammaturgica della musica è quella di commentare non di accompagnare, ovvero di aggiungere narrazione/poesia laddove l’immagine di per sé non è esaustiva della visione del regista. Essendo il videogioco superficialmente considerato simile ai film si tende a valutarne la musica allo stesso modo, quando invece la musica nasce per uno scopo drammaturgico diverso, ovvero quello di esaltare le caratteristiche immersive dell’esperienza videoludica.
Secondo questa mia assolutamente soggettiva e criticabile definizione, si può già parlare di musica per videogiochi con “PONG” (Atari, 1972). Uno dei capostipiti della prima ondata di successi commerciali nell’ambito dei giochi arcade (ovvero quei giochi che erano una volta esclusivamente fruibili con l’inserimento di uno o più gettoni in un cabinato) ma pensato per la fruizione casalinga, “PONG” non è certamente tra quelli celebri per la musica, anche perché tecnicamente non ce ne è. Nell’originale gioco per Atari del 1972 gli unici suoni presenti sono dei toni, uno acuto, quando la simulazione della pallina da tennis colpisce una delle due racchette, l’altro grave, quando invece la racchetta non raggiunge la pallina. Eppure c’è un elemento di gameplay che ha indirettamente fornito una dinamica ai suoni di “PONG”, ovvero l’idea di far accelerare la pallina ad ogni contatto con una delle due racchette. In tal modo cambiava il ritmo sia della partita che della sequenza dei toni alti, creando una puntellatura ritmica nevrastenica, che aumentando d’intensità sosteneva non di poco la tensione del gioco. “PONG” infatti ci mette di fronte ad un altra fondamentale caratteristica della musica per videogiochi, ovvero la sua funzione di delimitare sensorialmente la presenza del giocatore nel mondo virtuale.
C’è un videogioco in particolare che ha saputo brillantemente riflettere su questo concetto, diretto dal creatore della celebre saga di “Grand Theft Auto”, Leslie Benzies, per una piccola compagnia che si chiamava DMA, oggi conosciuta in tutto il mondo come Rockstar Games, gioco che doveva uscire per Sega Saturn, Microsoft Windows e Playstation, ma il suo rivoluzionario level design trovò casa con il complesso e innovativo editor di Silicon Graphics, la workstation 3D californiana dietro le magagne grafiche del Nintendo 64. “Space Station Silicon Valley” (DMA Design, Tarantula Studios, 1998) è un’opera sopra le righe, com’era tipico negli anni ’90, con l’umorismo di “Banjo-Kazooie” (Rare, 1998) e una meccanica di gioco probabilmente ispirata a “Paradroid” (Graftgold, 1985), grande classico del Commodore 64. Il mondo di gioco di “Space Station Silicon Valley” è un delirio assoluto: siamo all’interno di questa enorme stazione spaziale che orbita attorno alla Terra dove è stato ricreato una sorta di mondo parallelo abitato esclusivamente da animali robotici zeppi di armi letali. Elemento fondamentale del gioco ovviamente le musiche, fortemente ispirate al canone “nintendiano” di Kōji Kondō, autore delle musiche della saga di “Super Mario”, ovvero minime variazioni di tono su degli accordi basici, grazie ai quali il giocatore può concentrarsi sulla difficoltà del gioco esaltandone le sue caratteristiche principali, come il ritmo e vivacità dei colori e delle forme. La musica allegra e spensierata di Silicon Valley dispensa uno spettro timbrico inaudito per il Nintendo 64, sostenuto da delle melodie orecchiabili che configuravano il mood di gioco. Non solo però, la tipica presenza extradiegetica della musica qui veniva messa in discussione. Dato che infatti l’ambientazione è una stazione spaziale completamente robotica, Benzies ha avuto l’idea che nell’ambiente di gioco i suoni siano essi stessi riproduzioni artificiali, e così la musica che ascoltiamo viene “prodotta” da delle casse fisicamente presenti nel level design. Non solo se ci avviciniamo ad esse la musica tende a aumentare di volume, ma se le distruggiamo questa scompare del tutto.
Ma le geografie della musica per videogiochi non si limitano al mezzo in sé, e la sua natura immersiva è capace di ibridarsi con altre forme musicali. Tra le tendenze più interessanti del momento c’è in atto un revival di una oscura scena elettronica del nord Europa fortemente influenzata proprio dalla musica per videogiochi, ma non in senso lato, quanto nella declinazione più fantasy del termine, ovvero tutte quelle esperienze videoludiche ispirate dai giochi da tavolo come “Dungeons & Dragons,” i così detti RPG (role-playing games, giochi di ruolo). Il dungeon synth nasce infatti come costola del movimento black metal ambientale degli anni ’90, sviluppandosi in un vero e proprio genere tra la seconda metà degli anni ’90 e gli anni ’00. Oltre all’evidente influenza della musica pseudo-medievale degli anni ’60 (penso in particolare a gruppi come i Third Ear Band) il dungeon synth prende il proprio nome proprio dall’esperienza immersiva dei “dungeon”, cioè dalle segrete sotterranee presenti in ogni RPG che si rispetti. Dietro ogni angolo di un dungeon si nasconde un pericolo, una trappola mortale o un agguato, la musica che si definì quindi era una musica tesa, fatta di lunghi pedali o bordoni, eterea ma inquietante, dove le note si susseguono come gocce che cadono dalle stalattiti e riverberano in grotte apparentemente disabitate. Capite bene che un tale prodotto sembra pensato a pennello per la scena ambientale elettronica DIY europea, pochi mezzi, tastiere MIDI accavallate una sopra l’altra in cameretta, PC dalle performance opinabili, e una attenzione particolare all’arrangiamento, per evitare che troppe linee di suono si sovrappongano sovraccaricando il software. Una musica fatta di lunghi viaggi, tra paesaggi gelati e incantanti (Depressive Silence, “Depressive Silence II”, 1996), nelle foreste magiche “arturiane” (Chaucerian Myth, “The Canterbury Tales”, 2016) o perfino in una città futuristica cyberpunk (Erang, “Anti-Future”, 2016), che mantengono fede al principio immersivo del videogioco, trasportando la mente fuori dai ripetitivi e lentissimi pattern musicali, per poi ripescarla con un improvviso cambio di ritmo o l’albeggiare di un timbro dissonante.
Nel 2020 erano 131 milioni, nel 2021 scesero fino a 93, ad oggi, almeno secondo le stime pubblicare sul sito di Minecraft, ci sono attualmente 173 milioni di giocatori attivi. Uno dei maggiori competitor di “Minecraft,” “Terraria”, ha venduto 44 milioni di copie, l’ultimo successo di Rockstar, quelli di Silicon Valley, ha venduto 50 milioni di copie (“Red Dead Redemption 2”). La musica per videogiochi ormai è un’industria che andrà presto a fagocitare quella cinematografica, aperta a sperimentazioni di ogni genere, in particolare con la spazialità richiesta per i moderni giochi in Virtual Reality. Non c’è dubbio che queste generazioni, cresciute con i grandiosi temi di saghe come “Final Fantasy” (Square, Square Enix 1987-2023), con opere sperimentali come “Ecco the Dolphin” (Sega, 1993), “Silent Hill” (Team Silent, 1999) o “Quake” (id Software, 1996), ed ora con il pastiche retromaniaco di “Undertale” (Toby Fox, 2015) o quello di “Cuphead” (Studio MDHR, 2017), saranno generazioni che identificano nella musica caratteristiche come il feedback aptico, una vera e propria dimensione sensoriale con la quale interagire. Il prossimo passo potrebbe essere della musica che risponda direttamene ai nostri impulsi nervosi, in grado di cambiare in base al nostro stato d’animo, che come nel corridoio psichedelico di “Control” segua ogni nostro passo raccontandolo, ridefinendo il confine sensoriale non più col mondo virtuale, ma tra mente e realtà.
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SEGNALAZIONI - FEBBRAIO ‘22
di DPK800
Cinque segnalazioni (+1) per recuperare alcuni dei momenti salienti dell’ultimo mese. Per aprire i dischi, clikka sulla copertina.
“A collection of loop recorded between 2016-2021”, come si scrive nel comunicato stampa del disco. c’è chi forse non aspettava altro, da quell’EP del 2018 fatto di soli loop che era Eastern Strike.
Nostalg(h)ia trance.
Nostalg(h)ia loop.
Nostalg(h)ia.
Finalmente il ritorno di 3Phaz. Era dal 2020 che non sentivamo nulla, più precisamente dall’album “Three Phase” e la cassetta “Instant Dry Yeast” pubblicata da Boomkat Documenting Sound e qualche apparizione nelle compilation “Cairo Concept” e “This Is Cairo Not The Screamers”, con i suoi classici ritmi shaabi e mahraganat mescolati con le basse frequenze che amiamo tanto. Una delle punte di diamante del panorama egiziano assieme a ZULI and others.
Era tanto che non tornava al suo moniker di quando l’abbiamo scoperta, la francese Barbara anche nota come Malibu (che il 17 Marzo si esibirà a Bologna per Ombrelunghe).
Emotiva come non mai con “MUSIC FOR LANDINGS”, se Brian Eno con “Music for Airports” ci preparava a star eclissati in aeroporto per le attese surreali ed interminabili, dj lostboi ci prepara ad un atterraggio che chissà se avverrà mai.
Due anni dopo la sua guarigione John Bence è tornato con un album spirituale e personale sugli arcangeli andando ad espandersi e verso i vari credo religiosi. Dai canti in stile gregoriano passando a soli di pianoforte, il tutto lavorato assieme a field recordings e strumenti fatti in casa.
Ce ne sarebbe da dire ma… ritorna la luce e la possiamo toccare.
Free jazz delle nuove generazioni. I Saint Abdullah mescolano le loro sonorità con il batterista jazz Jason Nazary appassionato di musiche elettroniche.
La Disciples pubblica questo lavoro con le collaborazioni di NAPPYNAPPA (akaMODEL HOME), il bassista Petter Eldh e la voce di Emilie Weibel.
il +1
di Matteo Mannocci
LAMIEE, al secolo Nicholas Remondino, torna con un nuovo disco in cui esplora le possibilità di suoni rovinati e distorti. Un ascolto a suo modo meditativo, in cui perdersi in un tempo dilatato tra fonti sonore irriconoscibili in uno spazio dinamico.
UMIDO - Musica Ossessiva
di Pietro Michi
Nel nostro contemporaneo siamo sommersi da esperienze digitali, da quelle che seguono un profilo più artistico a quelle più commerciali.
L’evoluzione ha spostato questo medium dalle cartucce fino al digital download riuscendo a dedicare sempre più byte ai nostri amati giochi. I personaggi che vivono all’interno di questi mondi sono passati da un mucchio di pixel fino al fotorealismo, le colonne sonore da loop di poche note a composizioni orchestrali. ciononostante non tutto segue lo stesso percorso, anche oggi si trovano tantissimi giochi appena usciti che riescono a riassumersi in pochi Mb, una scelta economica, ma anche un marchio di stile.
Al gioco espanso si contrappone quindi il gioco compresso, dall’infinito fascino in bilico tra il retrò e il contemporaneo. Un tempo il limite di spazio era nel supporto e concedeva alla colonna sonora solo qualche byte, obbligando il giocatore a vivere in un loop acustico ossessivo. Quasi tutti, anche i più giovani, hanno provato a giocare a Tetris e hanno esperienziato cosa vuol dire giocare per un’ora assieme ad un loop che si ripete con una cadenza inferiore al minuto. Dopo il primo quarto d’ora inizia l’assuefazione e dopo un’ora l’ossessione, quasi nervosa, che personalmente inizia a farmi sbagliare e porta a un lento declino della mia torre di mattoncini.
Prima la scelta era vincolata allo spazio di archiviazione messo a disposizione, ora c’è chi ne fa una scelta di stile. Molti giochi puntano ad innescare l’effetto loop, l’effetto dipendenza o l’esplosione dei nervi (rage game). Colonne sonore molto ripetitive, specifiche per determinati livelli, o che si resettano ad ogni gameover del giocatore. Accompagnamento per innumerevoli esperienze acustiche cicliche spalmate su svariate ore di gioco, impressioni nel cervello del giocatore, tra l’affetto e il disprezzo.
Un esperienza consigliata, per chi ha accettato il loop e lo vuole abbracciare completamente, è Minit, un peculiare gioco dalla grafica scarna, che propone un’avventura nella quale ogni sessanta secondi si muore. Un gioco realizzato da Kitty Calis, Jan Willem Nijman, Jukio Kallio e Dominik Johann. Qui il loop, se pur esistente, si piega alla regole dell’avanzamento del gioco e gli amorevoli temi della colonna sonora (non ripetitivi alla stregua di Tetris) penetreranno nelle menti di chi gioca, creando una commistione perfetta di tutti gli inneschi tipici del loop, dipendenza, urgenza, nervosismo e per i più suscettibili, rabbia.
Puoi trovare Minit su Itch e su Steam