Newsletter #026
Musica come ordine, suono come possibilità
di Federico Fiori
L’ordine della musica
La parola musica è la traccia linguistica di una costruzione storica: un modo occidentale di pensare, ordinare e possedere il suono. Usarla significa accettare un intero sistema di regole e di conoscenze che separa l’evento sonoro dall’esperienza, la pratica dal sapere, il corpo dal linguaggio. Musica indica un campo delimitato: c’è chi la produce, ciò che viene conservato e un sistema di regole e significati che la giustifica. Ma questa parola crea distanza tra chi suona e chi ascolta, tra ciò che vibra e ciò che viene riconosciuto come significativo. Il punto non è la musica in sé, ma ciò che la parola musica fa al suono: lo trasforma in qualcosa da misurare, classificare e fissare, separandolo dal mondo sensibile da cui nasce. Fin dalle sue origini moderne, la musica europea, nel suo sviluppo tra Rinascimento e Settecento, costruisce un ordine del sensibile fondato sulla misura. La temperazione equabile, la notazione e la stampa musicale traducono il suono in segno, lo rendono calcolabile, trasmissibile, controllabile: una costruzione che organizza ciò che è percepito secondo regole precise. L’armonia, presentata come principio naturale, diventa una legge: un modo per regolare ciò che si può sentire. Nel Settecento, con il nuovo pubblico borghese, il suono si separa dalla vita quotidiana e diventa esperienza estetica autonoma. Le sale da concerto si aprono come templi laici: l’ascolto silenzioso, la disposizione frontale, la distinzione tra chi esegue e chi giudica diventano rituali. Il corpo viene educato alla concentrazione, alla compostezza. Da allora, la musica occidentale non ha mai smesso di formare l’orecchio come dispositivo di ordine. Nel XIX secolo questa costruzione raggiunge la sua piena coerenza. La musica si proclama libera, ma quella libertà è una forma raffinata di controllo. La purezza formale si trasforma in mito, la contemplazione in metodo. L’opera, sottratta alla sua funzione collettiva, diventa luogo di equilibrio e misura. Eduard Hanslick parla della “forma che si muove nei suoni”, ma dietro quell’apparente libertà si nasconde una nuova disciplina del corpo. La musica è libera solo perché chi la esegue è addestrato a esserlo. Non reprime la sensibilità, la organizza. La bellezza si separa dalla percezione e diventa regola: l’esperienza si fissa in norma e la vibrazione in sistema. Nel Novecento il linguaggio musicale cambia, ma l’ordine rimane. Molte esperienze cercano di liberarlo dal codice, di aprire il suono al caso, al silenzio, alla vita quotidiana. Per un momento la musica sembra oltrepassare se stessa: diventare gesto, spazio, relazione. Ma anche quell’apertura viene presto assorbita, studiata, trasformata in metodo. È la forza più grande dell’istituzione musicale: sopravvivere includendo le proprie eccezioni. Oggi le istituzioni musicali occidentali continuano a operare secondo la stessa logica, solo più sofisticata. I conservatori, le accademie, i centri di ricerca non sono semplicemente luoghi di formazione: sono macchine di costruzione sensoriale. Producono attenzione, postura, gusto. Formano musicistə eccellenti, ma spesso troppo simili tra loro: persone capaci di eseguire, raramente di ascoltare. L’attenzione si misura in abilità tecniche, non in capacità percettiva. L’ascolto viene addestrato alla correttezza, non all’incontro. Questa pedagogia non coltiva la sensibilità, la amministra. Trasforma la bravura in virtù morale, la competenza in segno di appartenenza. Ma ogni ordine definisce anche chi resta fuori. Ogni sistema che stabilisce cosa è musica e cosa non lo è decide anche chi può farla, chi può ascoltarla, chi può essere ascoltatə. La storia della musica occidentale è anche la storia di una selezione continua: una politica dell’attenzione che distingue l’ascoltabile dal rumoroso, il gesto “corretto” da quello inutile, il sapere legittimo dal semplice fare. Dietro l’ideale dell’eccellenza si nasconde un meccanismo di esclusione: la conformità è premiata, la differenza marginalizzata. Ogni scuola conserva un canone, e ogni canone produce silenzio — un silenzio che pesa su chi ne è escluso. Così il suono smette di essere rischio o scoperta e diventa esercizio, prestazione misurabile. L’istituzione musicale non reprime la creatività, la gestisce: la trasforma in progetto, in curriculum, in efficienza. La logica della produttività ha preso il posto di quella della disciplina, ma lo scopo resta lo stesso: mantenere l’ordine della musica.
Eppure, la possibilità di resistenza non scompare. La musica sopravvive nelle crepe del sistema: negli errori, nelle variazioni inattese, nelle pause che diventano spazio d’ascolto. Fuori dalle istituzioni, nelle pratiche marginali o collettive, il suono può ancora aprire mondi nuovi. È in questo scarto che la musica incontra di nuovo il suono — quando smette di essere linguaggio e torna esperienza. Ogni ascolto è un incontro con ciò che sfugge alla regola, un contatto che ricorda che il suono, prima di essere linguaggio, è vibrazione condivisa. Qui sta la sua vitalità: nel momento in cui sfugge alla misura e torna a essere possibilità. Pensare il suono significa sospendere, anche solo per un istante, la parola musica e le gerarchie che essa porta con sé. Significa restituire al suono la sua natura di evento — fisico, percettivo, culturale — in cui sapere ed esperienza coincidono. Solo da questa sospensione può nascere un altro modo di intendere l’ascolto, capace di attraversare le istituzioni, le tecnologie e le culture senza ridurle a sistema. Da qui comincia un’altra storia: quella del suono come campo di possibilità, dove la musica può tornare a essere esperienza e non dottrina, e forse — di nuovo — arte.
Il suono come campo di possibilità
Il suono non è un oggetto, ma una condizione che esiste tra le cose, le attraversa e le mette in relazione. Ogni vibrazione, nel suo farsi incontro, non rappresenta il mondo ma lo costruisce. Dove la musica ha tracciato confini, il suono apre passaggi; dove ha imposto regole, crea spazio. Ascoltare non significa decifrare un linguaggio, ma entrare in un campo di forze, lasciandosi attraversare da una materia viva che unisce ciò che è separato. Pensare il suono come campo di possibilità significa riconoscere che l’ascolto non è un atto estetico ma un modo di abitare il reale, un campo che non si offre come armonia ma come tensione, in cui le differenze non si annullano ma convivono, sfuggendo alla misura e rimettendo in gioco la relazione tra corpi, luoghi e presenze. Da qui si comprende come il suono sia sempre più di se stesso: non è soltanto ciò che si emette o si percepisce, ma ciò che accade tra chi ascolta e ciò che vibra. È una conoscenza relazionale che non distingue soggetto e oggetto, chi parla e chi riceve. Nel suono, sapere ed esperienza coincidono, si impara ascoltando e, nel farlo, si trasforma il sapere. Se il linguaggio tende a fissare i significati, il suono li attraversa, configurandosi come un sapere senza proprietà, una forma di intelligenza collettiva che non si trasmette ma si propaga. Conoscere attraverso il suono significa accettare l’incertezza come condizione: non per controllare attraverso il sapere, ma per coesistere. Da questa prospettiva, anche il tempo si trasforma. Nel suono si espande, prolunga ciò che tocca e va oltre chi lo ha generato. L’ascolto diventa una pratica di attenzione che amplifica la complessità del mondo. È un gesto corporeo e un atto di vulnerabilità: chi ascolta si espone, e proprio in questa esposizione costruisce una conoscenza condivisa, in cui la percezione non è privata ma comune. L’ascolto si configura così come una pratica etica e politica, un gesto di attenzione verso ciò che accade, verso chi parla e verso ciò che non può parlare. In un’epoca che misura tutto, ascoltare diventa allora una forma di resistenza: restituisce al tempo la sua densità, al corpo la sua presenza e al mondo la sua imprevedibilità. È un modo di prendersi cura, di restare in relazione con ciò che ci circonda, lasciando che il sapere cambi forma. Nel campo del suono, la conoscenza non passa attraverso l’accumulazione, ma attraverso la risonanza, e ogni ascolto apre nuove possibilità: non esistono errori, ma deviazioni che ampliano lo spazio del possibile. Questa materia sonora, fatta di relazione, contatto e contaminazione, non appartiene a nessuno e proprio per questo può appartenere a tuttə. Il campo sonoro è radicalmente inclusivo perché non richiede competenza ma presenza, non riconoscimento ma disponibilità. L’ascolto non distingue per capacità ma per attenzione, e si oppone così alla pedagogia della bravura: non valuta, ma accoglie. In questo spazio, ogni voce trova posto, anche quella che l’ordine della musica aveva reso inascoltabile. Per tutto questo, il suono apre una politica del presente: non promette un futuro ma rende il presente abitabile. Ogni vibrazione è una forma di libertà che resiste alla chiusura, un gesto capace di ricordare come l’esperienza non possa essere del tutto amministrata. Il possibile non è ciò che manca, ma ciò che attende di essere ascoltato: la forma che il reale assume quando qualcunə tende l’orecchio. Il suono, in questo senso, è un modo di pensare: non rappresenta il mondo, lo fa risuonare. È una conoscenza che non cerca verità ma relazione, in cui ogni ascolto modifica ciò che ascolta e ogni suono cambia chi lo riceve. Nel campo del suono, sapere, corpo e mondo coincidono, e la libertà non è assenza di regole ma capacità di muoversi tra esse. Per questo, l’arte — e forse la musica — possono ancora essere luoghi del possibile se tornano a essere pratiche di attenzione, non di rappresentazione; di presenza ma non di forma, perché il sapere non si insegna ma si condivide. Il suono diventa così una pedagogia dell’ascolto che restituisce al mondo la sua complessità e al corpo la sua intelligenza sensibile. Pensare il suono come campo di possibilità significa allora pensare una libertà che non separa ma connette, che non ordina ma accoglie. Ogni suono è un invito a ripensare il nostro modo di essere al mondo: un passaggio, un contatto, un inizio.
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UMIDO - Collage epico!
di Pietro Michi
Intorno agli anni Dieci del 2000 è iniziato un forte assalto sonoro, composto da suoni taglienti, sample saturati e sonorità concrete iper-processate: insomma, un suono da overdose di digitalizzazione, social addiction ed esistenza cyborg. Da quel magma sonoro sono nati generi, microgeneri, costellazioni: hyperpop, vaporwave, deconstructed club (solo per citarne alcuni tra i più riconosciuti). Questo impasto sonoro, rumoroso, è come un enorme buffet di frammenti, un tavolo imbandito di mille pietanze, da cui ognuno prende ciò che preferisce. Ma c’è chi non si accontenta di assaggiare: chi vuole ributtare tutto in un unico calderone.
Nel 2014 è uscito un articolo scritto da Adam Harper su The Fader, in cui viene introdotto un nuovo termine: Epic Collage. L’articolo parlava dei primi lavori di Elysia Crampton (E+E), in particolare dell’album The Light That You Gave Me to See You, ma anche di Total Freedom e Diamond Black Hearted Boy. Tre produttori che sembravano usare la musica come un linguaggio sacro e distorto guidato da un uso massimalista di campioni tra cui frammenti pop, suoni violenti, texture epiche, glitch e suoni altamente processati. Lavori sinestetici e cinematografici trasportano l’ascoltatore in realtà sconosciute. Chiudi gli occhi e non ti trovi in un film drammatico né sulla riva di un fiume: sei piuttosto in una condizione di confusione, dove tutto ti passa accanto prima ancora che tu riesca a comprenderlo. Le tematiche risultano fluide ma di forte attrito: politiche, sociali e profondamente legate all’ansia del contemporaneo. L’Epic Collage affonda le sue radici nella cultura pop, nel noise, nell’ambient e nel sound collage, ma non si identifica pienamente con nessuna di queste.
“The framework is avant-garde sample collage, but their work tells stories about 21st-century experience.“ Adam Harper
Riprendendo l’analogia di prima, l’Epic Collage è un minestrone sonoro / collage epico in cui, a mio avviso, l’importante non è solo il piatto in sé, ma soprattutto la ricetta e il gusto. Anche se ci sono album che lo sublimano al punto da diventare veri e propri manifesti, io lo vedo principalmente come una pratica, un’estetica, un modo di pensare il suono.
Negli ultimi anni il termine Epic Collage è tornato in gioco nella musica underground (e non solo), e spulciando i tag di Bandcamp o RateYourMusic ci si accorge che non ci ha mai veramente abbandonato. Ogni anno le uscite etichettate Epic Collage aumentano, e probabilmente alcune le avete anche ascoltate: Lexachast di Amnesia Scanner & Bill Kouligas, o alcuni lavori di Arca, Giant Claw o S280F. Persino alcuni generi affini, come il post-internet, la botanica o il petalcore, vengono riletti attraverso questa lente. E anche se può sembrare un enorme pot-pourri, e alcune opere o sottogeneri non risultano del tutto coerenti con la pratica dell’Epic Collage, è evidente che attorno a questa estetica si sta consolidando un nuovo interesse. Forse alcuni album sono stati “taggati” così solo di recente, per seguire una tendenza; o forse siamo di fronte a una vera riscoperta.
L’Epic Collage non cerca approvazione. Esiste nell’istante in cui il suono diventa esperienza. È fatto di tessiture, plunderphonics, mash-up, sound collage e massimalismo, tutto filtrato da processori digitali sfrigolanti. Può essere carezza improvvisa o gorgoglio d’ansia. Un cinema sonoro talmente saturo da non permettere di distinguere neppure un’immagine. È una musica altamente emotiva e indissolubile dal contesto politico e sociale. La sua stessa esistenza è impregnata di questioni di genere, post-colonialismo, cultura digitale e distorsioni emotive.
Se desiderate approfondire questo argomento, potete scriverci direttamente a gooolem.mag@gmail.com. Grazie al vostro interesse ed eventuali spunti potrebbe nascere un secondo episodio di Umido, una breve appendice oppure una mappa interattiva dedicata all’epic collage.
Guida all’ascolto: sfaccettature dell’Epic Collage
The Light That You Gave Me to See You – E+E
Gargoyle - DJWWWW + Nicole Brennan + OROKIN
“My Everything” By: love life all the time ---- HOSTED BY: ^^^^^^^^^^^^_^^^^^^^^^^ - love life all the time
Hast Thou Brought Enough Fairies? Need More? OK! - Her Wonderworld Reversal Orchestra
XPETAL – 7038634357
amor de encava – Weed420
I love MUSIC – mifu
Siddhartha – precettö
28 – S280F
Jestem Will Smith (LATIN ELECTRONIC/EPIC COLLAGE/INDIGENOUS ANDEAN MUSIC/HYPNAGOGIC POP/DEMBOW MIX)







